A proposito di design

Riflessioni a più voci intorno al significato di uno dei più straordinari marcatori del tempo.

“Per essere bello, è bello. Peccato non funzioni granché”. Quante volte abbiamo ascoltato affermazioni come “efficace, ma orrendo”, “stupendo, ma costa un occhio della testa”. È dall’opposizione delle coppie concettuali – bello/brutto, funzionale/inadatto – che trae origine il significato originario del “fare design”, ovvero rendere bello ciò che è funzionale.

Non solo: il “bello funzionale” deve (dovrebbe) anche essere alla portata di tutte le tasche. Insomma, il design quale panacea contro i mali del mondo contemporaneo. Ma è davvero così, oppure è impossibile darne una definizione univoca?

 

Su cosa sia il design e sulla veridicità di millanta definizioni, discutiamo parecchio. Anzi, da un certo punto di vista potremmo dire che non facciamo altro insieme a chi disegna i prodotti, a chi progetta gli ambienti, e a chi ha l’ingrato e sempre più difficile compito di far sì che il prodotto giusto incontri la persona giusta. A ben vedere, anche questo è design: ovvero il processo mediante il quale le idee diventano quella cosa tangibile che chiamiamo progetto. Poiché il design è un animale che nasce e prospera solo nell’ecosistema industriale, la vera differenza che corre tra un oggetto e un progetto è che mentre il primo può essere un unicum, il secondo è pensato per dare vita a sistemi organizzati che adattandosi all’ambiente lo caratterizzano e lo mutano in modo inequivocabile. Esattamente ciò che capita ad ogni forma animale e vegetale evoluta.

No, non è sempre stato così ovviamente. Gropius e il suo Bauhaus hanno inventato un mondo, il design industriale. La missione dichiarata di quella scuola abitata da talenti tali da sconfinare nel genio fu di rendere accessibili a vaste masse di consumatori prodotti “belli e ben fatti”. Un ideale dalle forti connotazioni politiche: migliorare attraverso la funzionalità e la bellezza la vita quotidiana delle persone. Come sappiamo, non durò. Ma i semi del (o della) Bauhaus dispersi dal nazismo finirono col fecondare le menti dei progettisti di tutto il mondo. In più di un caso anche, come vedremo, di contaminare le menti dei più visionari.

 

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Basti pensare che dal rigore luterano di Castiglioni siamo giunti alle plastiche sinuosità di Zaha Hadid. Non è solo una questione di gusto. La mutazione è avvenuta attraverso un modo di progettare e di concepire la progettazione radicalmente diverso, laddove una nuova idea di mondo, di società e di costume ha influenzato la cultura del progetto e ne è stata a sua volta potentemente condizionata. I più grandi di noi (eufemismo) ricordano gli anni in cui il design era praticato da un numero esiguo di imprese guidate da un imprenditore visionario fermamente convinto del percorso che aveva intrapreso: credeva fermamente nel suo prodotto e ancor più nel suo progetto (come è noto prodotto e progetto sono fratelli spuri). Anni in cui la ricerca e la sperimentazione dei materiali erano concepite alla stregua di virtù cardinali da preservare e perseguire con maniacale osservanza. Si trattava di aziende i cui fatturati erano contenuti e il marketing non aveva ancora assunto Il ruolo centrale che ha oggi.

 

Oggi il mercato del “bello e ben fatto” è cresciuto enormemente. Di conseguenza un fenomeno è sotto gli occhi tutti: si è innalzata a livelli inauditi la qualità media dei prodotti. Il sogno di Gropius si è dunque avverato? Sì e no. Se è vero che le case degli italiani sono oggettivamente molto più belle e assai meglio arredate rispetto al passato, è altrettanto vero che la crescita della qualità media è avvenuta a scapito dell’innovazione. Come se i prodotti si fossero standardizzati e in qualche modo unificati. Le differenze, le distinzioni, si sono ridotte e in qualche caso persino annullate. È un fenomeno tipico delle società di massa nelle quali i consumatori hanno la fortunata possibilità di accedere a un numero pressoché infinito di prodotti di media e medio/alta qualità.

 

E quindi cos’è diventato oggi il design? Per alcuni è qualcosa che guida, che dà il drive, direbbero gli innamorati dell’americanese; la bibbia che offre all’azienda strumenti e argomenti per andare sul mercato e avere successo. Per altri, significativamente più giovani, il design altro non è che “mettere in bella” un’idea. La domanda critica tuttavia è un’altra: come può un’azienda che ha raggiunto fatturati importanti e, come un areo in volo, deve mantenere la quota di navigazione stabilita, a non pensare a prodotti adatti al mercato “qui e ora”, oggetti che necessariamente devono realizzare fatturati consistenti il più rapidamente possibile?

 

È il grande quesito del nostro tempo. Confermato e amplificato dalla distribuzione che, seppur di qualità, fatica ad accettare prodotti la cui innovazione e/o forte identità li condanna ad essere beni di nicchia. Prigioniero di questi vincoli, obbligato a realizzare grandi numeri, il design rischia quindi di diventare un mero supporto alla produzione; nel migliore dei casi l’inventore di nuove soluzioni commerciali.

Sarà questo dunque il futuro prossimo del design? Ogni trasformazione quantitativa diviene qualitativa e viceversa, l’esempio classico è quello dell’acqua: al variare della temperatura muta consistenza passando dallo stato liquido a quello gassoso, oppure viceversa a quello solido del ghiaccio. Analogamente, la straordinaria ricchezza quantitativa dell’offerta di prodotti genera una variazione qualitativa della complessità; e quest’ultima può essere gestita positivamente solo nello spirito del design. “Design” che in questo caso significa mettere al servizio degli architetti d’interni la conoscenza approfondita dei cataloghi, conditio-sine-qua-non per la realizzazione di soluzioni d’arredo distintive e memorabili, oltreché potentemente funzionali. Ma non solo. Oggi il contributo di chi come noi promuove il design consiste anche nell’aiutare le imprese innovative a conquistare lo spazio di mercato che compete loro individuando il modo giusto e la strada giusta affinché il prodotto sia distribuito e conosciuto nel mondo della complessità mutevole.

 

Inutile dire che non esistono scorciatoie né formule magiche ma solo la passione per il proprio lavoro. Forse il solo segreto è: “rendilo semplice, ma significativo”, come sosteneva Don Draper il personaggio principale della fortunata serie Mad men. Accarezziamo l’idea che anche Gropius e il suo amico Van Der Rohe sarebbero d’accordo.